Tranquilli, c’è tempo.

Una volta consegnato a Bruxelles il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) in attesa dei sussidi e dei prestiti europei, è forte la tentazione di comportarsi come se il più ormai fosse fatto. Rilassarsi troppo nel contrasto al virus sarebbe un tragico errore, lo sappiamo bene.

Ma lo è anche nel divagare incerto e strumentale su riforme serie, nel rinviare impegni stringenti e vitali per il nostro futuro. Lanciando la palla in avanti.

Nella perversa convinzione— complice l’assenza (temporanea) di vincoli di bilancio e l’ingannevole leggerezza del debito — che le risorse siano infinite, così come il tempo a nostra disposizione.

Un esempio. Il Pnrr prevede che si debbano approvare — come ha scritto Emilia Patta su Il Sole 24 Ore — 48 riforme in un anno e mezzo, per parlare solo di quelle definite orizzontali e abilitanti. Siamo già in ritardo in maggio con le semplificazioni. Nove provvedimenti vanno presentati in Parlamento entro la fine di giugno.

Il Pnrr prevede che si debbano approvare 48 riforme in un anno e mezzo, per parlare solo di quelle definite orizzontali e abilitanti. Siamo già in ritardo in maggio con le semplificazioni

Se ci voltiamo un attimo indietro, ai decenni scorsi, e facciamo il conto delle tante riforme rimaste sulla carta, se pensiamo solo a come siano divise le forze politiche su giustizia, lavoro o concorrenza, l’obiettivo di fare 48 riforme in un anno e mezzo ci dovrebbe togliere il sonno. Un incubo.

Non sarebbe fuori luogo che i presidenti delle Camere dicessero: quest’anno le vacanze non le facciamo, abbiamo troppo lavoro.

Invece c’è anche chi pensa di lanciare un referendum sulla giustizia, favorevoli due forze dell’attuale maggioranza, che bloccherebbe di fatto tutto. Abbiamo indosso una camicia di forza, ma facciamo finta di niente.

Un altro esempio è significativo per spiegare come il senso di urgenza sia relativo e la consapevolezza della posta in gioco ancora modesta. In Italia si è parlato assai poco, quasi nulla — e questo la dice lunga su quanto la cura del capitale umano sia spesso un’etichetta — delle proposte che la Commissione europea ha presentato all’ultimo vertice di Porto.

Ovvero la rivoluzione della formazione permanente che non è per Bruxelles meno importante di quella digitale o verde. Entro il 2030 almeno il 60 per cento della popolazione attiva dovrà partecipare, ogni anno, a corsi di formazione.

Si dirà: ma il 2030 è lontano. C’è tempo. No, perché è sfuggito ai più che per raggiungere questo obiettivo, entro il 2025 — cioè fra meno di quattro anni — 120 milioni di europei torneranno idealmente sui banchi di scuola. Una sorta di grande campagna di vaccinazione educativa. Dopodomani.

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